L’esercizio del diritto di recesso nell’ambito dei contratti di durata costituisce fonte di notevoli problematiche applicative e interpretative. Sono, infatti, molteplici i casi pratici nei quali lo scioglimento unilaterale del vincolo contrattuale oscilla tra l’esercizio lecito di una facoltà prevista dalla legge o dall’accordo dei contraenti ed un abuso del diritto volto a cagionare uno sproporzionato sacrificio degli interessi della controparte nonché una effettiva lesione dell’affidamento dell’altro contraente nella prosecuzione del rapporto. Il contraente che intende sciogliersi dal vincolo negoziale è, infatti, tenuto al rispetto di quei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., che operano non solo sul piano della formazione ed esecuzione del vincolo negoziale, quanto anche sul complessivo assetto di interessi convenuto dalle parti stesse.

In materia di affitto d’azienda, la valutazione sulla correttezza o sulla abusività delle modalità di esercizio del diritto di recesso da parte del concedente è ulteriormente influenzata dalla funzione economica e sociale del contratto stesso, consistente nel trasferimento della piena disponibilità di un complesso produttivo. Lo scioglimento unilaterale del contratto non può infatti considerarsi conforme ad un criterio di correttezza e buona fede ove le concrete modalità di esercizio mettano a repentaglio l’attività svolta dell’imprenditore/affittuario per l’esercizio dell’impresa nonché gli investimenti effettuati per la conservazione del complesso produttivo.

Sul tema peculiare delle conseguenze di un recesso abusivo nell’affitto d’azienda non si riscontrano particolari pronunce della giurisprudenza. Per avere un quadro organico sulla questione è quindi necessario analizzare i principi elaborati per altri tipi contrattuali di durata, quali la concessione di vendita e l’appalto. Esemplare, al riguardo, è la pronuncia del cosiddetto “Caso Renault” (cfr. Cass. 20106/2009) e l’esercizio di recesso senza motivo da parte della stessa dai contratti di concessione di vendita (di durata media di circa dieci anni) nei confronti di 200 dealer italiani. Risolvendo la vertenza a favore dei dealer, la Suprema Corte ha affermato che il riconoscimento al contraente del potere di recedere non è condizione sufficiente per ritenere l’esercizio di tale potere legittimo, poiché i canoni generali di correttezza e buona fede presidiano non solo la formazione del vincolo contrattuale, bensì anche la sua interpretazione ed esecuzione (fu accertato che lo scopo di tale operazione non era quello di riorganizzare la rete vendite bensì quello di sostituire i concessionari esistenti con alcuni ex dirigenti Renault).

Il principio di diritto su enunciato ha, poi, trovato conferma in pronunce successive, che hanno recepito la linea interpretativa elaborata dalla Cassazione per il caso Renault (cfr. in materia d‘appalto Corte d’App. Milano 17.11.2020 n. 2957), da trasporre dunque anche al tipo negoziale dell’affitto d’azienda (in quanto lato sensu ascrivibile alla categoria dei rapporti di durata) garantendo all’affittuario, il cui legittimo affidamento nella prosecuzione del contratto sia stato frustrato dal recesso ad nutum azionato dal concedente, di poter sempre richiedere al giudice un vaglio sulla correttezza dell’esercizio di tale facoltà, al fine di valutare se il contegno tenuto dal concedente nasconda una condotta abusiva, le cui conseguenze dannose, ove provate ed accertate, dovranno essere integralmente risarcite nel loro ammontare (perdita e mancato guadagno compreso).