La vicenda processuale in esame sulla quale è intervenuta la Suprema Corte (cfr. Cass. 21452/2023) attiene alla ritenuta responsabilità colposa di una giocatrice di rugby per avere, durante una partita di Coppa Italia femminile, procurato gravi lesioni, oltre all’indebolimento permanente della vista, ad una giocatrice avversaria: in particolare, dopo essere cadute entrambe a terra, nella fase successiva ad un placcaggio da parte dell’avversaria, l’atleta, nel tentativo di rialzarsi, colpiva al volto l’avversaria con il gomito, causandole lesioni che necessitavano di un intervento chirurgico. I giudici territoriali fondavano il giudizio di responsabilità sul fatto che doveva ritenersi superato il rischio consentito dall’espletamento dell’attività sportiva specifica in quanto l’azione posta in essere con il gomito non era avvenuta in una fase di concitamento e risultava sproporzionata come violenza rispetto alla necessità di rialzarsi da terra. L’atleta condannata in Corte d’Appello proponeva, dunque, ricorso per cassazione lamentando la mancata indicazione della regola del gioco violata e la mancata applicazione della scriminante del rischio consentito. Si è trattato, pertanto, di individuare i confini dell’area del penalmente rilevante in rapporto alla condotta lesiva dell’altrui integrità fisica nell’ambito delle competizioni sportive.

A riguardo, la Corte ha osservato che l’attività sportiva, al pari di altre attività umane potenzialmente pericolose, ma consentite in quanto socialmente utili, non si sottrae all’indagine di responsabilità colposa o dolosa in caso di eventi lesivi della vita o dell’integrità fisica delle persone, accaduti nel corso o in occasione del suo esercizio: ciò, in quanto si tratta di attività lecita, rispetto alla quale i partecipanti accettano di correre determinati rischi, sempre che la loro integrità fisica non sia da altri deliberatamente lesa o colposamente danneggiata a seguito della violazione di predeterminate regole cautelari. In quest’ottica, quindi, sono da considerarsi illeciti quei comportamenti che non sono riconducibili al gioco, pur nelle sue espressioni pericolose, o perché intenzionalmente diretti a procurare danno alla persona oppure perché, essendo in contrasto con il principio di lealtà sportiva, sono estranei all’ambito di applicazione delle regole del gioco, che quel principio presuppongono, e sono quindi disciplinati dalle ordinarie regole di diligenza, dei quali costituiscono violazione. Ne consegue, pertanto, che in sede di accertamento della colpa il giudice deve indicare la regola cautelare violata preesistente al fatto, e specificare quale sia il comportamento doveroso prescritto.

Ciò detto, nel caso concreto, la Corte ha rilevato come proprio quella regola cautelare non fosse stata evocata dai giudici di merito e come, al contrario, la sentenza desse conto del fatto che dagli atti del giudizio sportivo fosse emerso che l’imputata, essendo trattenuta a terra dalla giocatrice avversaria, si fosse divincolata e nell’alzarsi avesse colpito solo accidentalmente quest’ultima. Pur ribadendo, dunque, il principio, la Suprema Corte, ritenendo non manifestamente infondati i motivi proposti e rilevando l’intervenuta prescrizione del reato, ha disposto l’annullamento senza rinvio dell’impugnata sentenza.